
Martin Eden (Pietro Marcello, 2019)

«Il mondo è dunque più forte di me. Al suo potere non ho altro da opporre che me stesso — il che, d’altra parte, non è poco. Finché infatti non mi lascio sopraffare, sono anch’io una potenza. E la mia potenza è temibile finché ho il potere delle mie parole da opporre a quello del mondo, perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà.» – Stig Dagerman
Così si apre Martin Eden, film di Pietro Marcello liberamente ispirato al romanzo omonimo di Jack London.
Uno dei film dall’impatto più forte che mi sia capitato di vedere. Uno dei film che più di molti altri raccomanderei di guardare: vivendolo e non semplicemente scorrendolo.
Martin Eden è un marinaio. Martin Eden è un individuo che vuole emanciparsi. Martin Eden vorrebbe le parole e i pensieri per raccontare i colori della vita e del mondo, per comprenderne i significati, per svelare tutto quell’universo magnifico e vasto che sta dietro il bruto impatto con la materia quotidiana, per dare voce a sentimenti altrimenti muti a se stessi. Incomprensibili e incomunicabili.
Martin Eden allora studia con veemenza; è autodidatta, consuma le notti sui libri, riflette e intanto, vive.
Rifiuta la sopravvivenza ciclica e fine a se stessa, rifiuta una vita vuota fatta di automazioni e schemi, di cliché e formalismi, di obblighi insensati e brutalità mascherate.
«La prima volta che ho provato a scrivere non avevo nulla di cui scrivere. Non avevo pensieri, non avevo neppure le parole. Ma via via che ho arricchito il mio vocabolario ho riconosciuto nelle mie esperienze qualcosa di più che dei semplici quadri e ne ho trovato finalmente l’interpretazione.»
Martin vorrebbe le parole e i pensieri per essere libero. Parole e pensieri che formano però una esistenza in contrasto con un mondo povero di buone parole e di grandi pensieri, un mondo dislessico e ignorante. Martin impara dunque una lingua della solitudine che, avvicinandolo alla comprensione del mondo, lo allontana però sempre più da questo. Le parole e i pensieri che dovevano disvelare il mondo lo mostrano deformato e ingannevole, falso e ipocrita.
Pietro Marcello ha un enorme coraggio nel dirigere questo meraviglioso film, uno di quei film che si rimpiangerebbe di non aver visto. Ha coraggio nel voler gettare il cuore oltre, nel voler girare uscendo dai canonici schemi narrativi e rischiando: svolgendo il racconto in una atemporalità fluttuante, usando spezzoni di repertorio inframmezzati al racconto, balletti di bambini sorridenti lungo vie di periferie spoglie e luride, i balletti spensierati di due fratelli, due giovani Martin e Giulia.
Giulia: «Sono una Eden anche io o no?»
Martin: «La migliore! Eri pure la più brava a ballare.»
Giulia: «Ti voglio bene. Mo’ che vai in America vai a ballare tu… vai a ballare tu.»
Martin Eden è un film stupendo che scava in noi mentre lo vediamo e dopo che lo abbiamo visto. Martin Eden comunica quei sentimenti perduti, quei desideri sopiti che lottano contro questa finzione in moto che è il teatro della vita, dalla quale non vi è forse possibilità di emancipazione perché troppo radicata. Schiavi schiavi, sempre schiavi. Del silenzio o delle parole incomunicabili, della povertà o della ricchezza, dell’ignoranza prodotta in serie o della cultura prodotta in serie. Destinati a non avere i pensieri o, avendoli, a doverli veder sempre ricadere senza salvezza in un infinito vuoto di incomprensione e incomunicabilità.
Destinati a esser cechi di fronte la bellezza (ancella dell’amore) o a vederla sfigurata dal mondo.
Un viaggio di redenzione verso la dannazione. O di dannazione verso la redenzione.
Perché «la morte non faceva male. Era la vita.» – Jack London
«Dal troppo amor di vita,
da speranze e da timori liberati,
ringraziamo con breve preghiera
gli dei, quali che siano,
che nessuna vita vive per sempre,
che i morti non risorgono mai,
che anche il più stanco fiume
trova riposo nel mare.»
– Jack London –