Melt Yourself Down “100% Yes”

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Vinyl & Cd, 2020 | post-punk, jazz, afro-beat, funk, world music

Era con trepidazione che attendevo il ritorno dei Melt Yourself Down, tra le formazioni più in voga nella multietnica e folta scena londinese – assieme a The Comet is Coming e Kokoroko, giusto per fare un paio di nomi – e soprattutto tra la poche band capaci di entusiasmarmi sul serio nel decennio appena trascorso.

Era lecito attendersi stravolgimenti dopo l’uscita dalla formazione del batterista Tom Skinner e del sassofonista Shabaka Hutchings, vere colonne portanti per il sound dell’ensemble, ma i neo-arrivati Adam Betts e George Crowley, che vanno ad affiancarsi ai veterani Pete Wareham e Kushal Gaya, non li fanno certo rimpiangere: il sound rimane il solito pot-pourri di generi, etnicamente variegato in maniera quasi caleidoscopica e addirittura con qualche elemento di novità rispetto al passato. Se proprio vogliamo trovare un cambiamento sostanziale, il drumming si fa più potente, più rock, più – prendetelo con le pinze – metal, a scapito di un’irruenza punk e anarcoide che qua e là viene invece ingabbiata – o almeno c’è il tentativo, per fortuna non sempre riuscito – in forme più radiofoniche e digeribili.

Ne è un esempio perfetto Boot and spleen, bomba d’apertura più “pop” e “lineare” rispetto alle spigolosità del passato, e più catchy. Un singolone che è il solito frullato di generi, ma lo zucchero e l’edulcorata si sentono. Lo scetticismo viene prontamente ricacciato indietro da This is the Ssqueeze, in cui Africa e Medio Oriente si fanno sentire con prepotenza, in questo episodio dance/post-punk etnicamente e musicalmente speziato che fa incontrare Omar Souleyman con Talking Heads e Mark Stewart. Una cavalcata trascinante e ipnotica, di gran lunga il miglior episodio dell’album. Born in the Manor scompiglia ancor di più le carte – dove stiamo andando? Lenta, cupa e fosca, vi trovano spazio schegge e frammenti di hip/trip-hop e post-dubstep, con linee vocali che negli sprazzi più melodici richiamano da non so dove i System of a Down, io il primo a stupirmi per l’accostamento. In Every Single Day, sono ancora una volta i fiati ad essere protagonisti, in questo meltin-pot di generi trasfigurati, dal jazz all’afro-beat al post punk, che uno potrebbe azzardare un Lounge Lizards in chiave multietnica e da nuovo millennio, ma poi arrivano le linee melodiche robotiche a farti perdere di nuovo le coordinate, per non parlare della coda densa di elettronica, e allora non sai più che pesci pigliare, in un gioco all’accumulo che porta alla deriva. Ormai siamo allenati e pronti a tutto, e tocca a It is What it is e al suo mix di afro-beat, punk-funk, elettronica e sonorità etiopi, che esplode in un più canonico refrain rock, ancora i SOAD che fanno capolino, ma con una tavolozza ben più variegata rispetto alla citata band americana. From the Mouth è l’episodio più elettronico del lotto, mix di eletro-clash speziato di fiati world music, che anticipa l’inattesa Crocodile, l’altro ordigno dell’album che combina la potenza del drumming e l’urgenza dei fiati con una linea melodica dall’alto potenziale radiofonico.
Il finale ci lascia incerti – combo di B-sides o tentativi di allargare ulteriormente gli orizzonti? Don’t Think Twice è un episodio lento e sornione, con una base hip hop molto nineties, ma sicuramente meno interessante rispetto a quanto ascoltato finora; Chop Chop è foga anarco-punk, meno colorata e più paranoica, e vale lo stesso giudizio della riga sopra. La conclusiva title-track è infine la più immaginifica e fumosa del lotto, la più orientalista, densa di sentori e umori di un’Africa e di un Oriente immaginifici, che monta e monta in un caos crescente, lo stordimento generale e lo sguardo sfocato da doppie visioni – come nella copertina dell’album, brutta eccome, c’è da dirlo – come risultato finale.

Un passo indietro o avanti rispetto ai due lavori precedenti? Difficile dirlo, sicuramente un album riuscito che si mantiene ad alti livelli con elementi di novità rispetto al passato – che possono piacere o meno, ma ben vengano. E di certo i Melt Yourself Down – e la scena londinese che rappresentano, restano in prima fila nel mio radar di ascolti.

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